La figura professionale più amata e odiata da chi opera nel mondo del food è quella del critico gastronomico ( e poiché a pari merito con quella del giornalista gastronomico, parlerò dell'una rivolgendomi implicitamente anche all'altra). Fatta questa premessa ne faccio un'altra. Un articolo a favore o a sfavore di uno chef o di un ristorante postato sui social da anonimi avventori, che a volte sono solo sedicenti tali e in quel locale non hanno mai messo piede nè hanno mai incontrato lo chef e men che meno assaggiato i suoi piatti, lasciano il tempo e il peso che trovano. L'anonimato conferisce un affascinante potere a chi, voglioso di visibilità, non potrebbe averne altrimenti; dietro una recensione pro o contro scritta con educazione da una " persona perbene" che esprime il proprio pensiero con garbo e cognizione di causa, c'è una coda di improbabili esperti che tali non sono e di livorosi che si ergono a giudici del lavoro altrui, senza averne gli strumenti per esserlo.
Il giornalista gastronomico, che ha anni di studio ed esperienza nel campo, appartiene alla categoria dei professionisti. Questo è il punto 1°. Punto 2°: non parla tanto per parlare e non scrive tanto per scrivere. Punto 3°: parte senza alcun preconcetto di sorta e con una mente aperta ad un totale coinvolginento dei sensi; tutti e cinque.
La vista è il suo primo approccio al piatto, cui segue subito l'olfatto, quindi il tatto e l'udito che agiscono contemporaneamente ( con le posate tocca il cibo per sentirne la consistenza ed anche il rumore che fa al taglio), infine entra in gioco il gusto. Al momento dell'assaggio tutti e cinque i sensi si fondono per regalare quella che può essere un'estasi, una semplice buona impressione o una delusione.
Il bravo giornalista gastronomico, però, non si limita a questo. Vuole conoscere il creatore di ciò che ha assaggiato, la sua filosofia, quali sono le materie prime, da dove vengono e qual è il suo personale rapporto con esse. Insomma, vuole conoscere la "persona", ancora meglio se può farlo prima di sedersi al tavolo, perchè ciò gli permetterà di assaggiare con una mente consapevole di ciò che assaggerà: non solo un insieme di ingredienti, ma anche la storia, la ricerca e lo studio che sono dietro la creazione.
Al giornalista gastronomico potrete raccontare peste e corna dello Chef che andrà ad incontrare, così come potrete magnificargli i meriti: non si lascerà influenzare. E' un professionista serio. Dire che un piatto non ci piace, è ben diverso dal dire che non è buono. Ad esempio: se mi si serve un piatto a base di agnello, non lo mangerò perchè non mangio agnello. Ciò non mi esime dal notarne l'aspetto, la consistenza, la cottura, ma non potrò mai dire che non è buono perché non l'ho assaggiato.
Il senso del discorso è: mai esprimere giudizi su ciò che non si conosce e su chi non si conosce. Dovrebbe essere una regola di vita, in ogni campo. Purtroppo non è così, complice la possibilità di esprimere i propri pensieri gratuitamente e senza merito alcuno. Prima dell'era social se volevi far sapere al mondo la tua opinione, dovevi scrivere una lettera firmata alla redazione di un giornale e aspettare. Se non avevi detto stupidaggini, se il tuo pensiero era di pubblico interesse e ti eri espresso educatamente, ecco che allora - forse e dopo attento esame - la tua lettera avrebbe avuto qualche chance di essere pubblicata. A Milano diciamo:"Offelee fa el tò mestee" ( letteralmente" pasticciere fai il tuo mestiere", a ciascuno il suo). Parlare è lecito, ma giudicare no; per farlo occorre avere gli strumenti, padroneggiare la materia, averla studiata e conoscerla. Solo in tal caso il giudizio ha valore, altrimenti sono solo chiacchiere da bar.
Quindi, non diamo mai credito alle "voci", al "sentito dire". Ascoltiamo chi del giudizio ha fatto il proprio mestiere per avere un'idea d'insieme e poi verifichiamo di persona; e se proprio vogliamo raccontare la nostra esperienza facciamolo in modo oggettivo, con sano criticismo storico.
Questo è il difficile lavoro del giornalista gastronomico.
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